Calice del Barbavara
Lo splendido calice, tutto dorato, è arricchito dalla fitta decorazione di gemme incastonate e soprattutto dallo splendido intreccio di smalti a reticella. Il Di Bartolo nella sua Monografia (cfr. S. Di Bartolo, Monografia sulla Cattedrale…, 1903, p. XXXIV) lo cita fra gli "oggetti pregevoli che si conservano nella cassa-forte della Sacrestia", come Calice d’oro gemmato – dono del Can. Decano G. B. La Rosa. In realtà non è prezioso solamente per l’indubbia bellezza artistica, ma testimonia anche una particolare tecnica, molto in voga tra XVII e XVIII secolo. Si tratta di opere di singolare bellezza realizzate con molta perizia perché dovevano sostenere e incastonare gemme di grandissimo valore. Di questa particolare tecnica da un’accurata descrizione l’Accascina (cfr. M. Accascina, Oreficeria di Sicilia…, 1974, p. 259) a proposito della Corona d’oro e smalti custodita nel Duomo di Enna, compiuta in dieci mesi dai maestri Leonardo Montalbano e Michele Castellani; queste sono le parole della studiosa: "accanto alla tecnica dei violenti sbalzi per le grandiose casse reliquiarie a metà del secolo si afferma nei laboratori palermitani una tecnica raffinatissima che consiste nell’incastonare gemme preziose e smalti per formare corone, calici e ostensori d’eccezionale vibrazione luministica. Tali vibrazioni sono ottenute perché sia i fregi che le gemme non sono sovrapposti su di una compatta superficie di fondo, ma per il lavoro di traforo del metallo sembrano rimanere sospesi e volitare". Continuerà menzionando fra gli esemplari degni di nota, un Ostensorio e un Calice con fregi a smalti, che prima del "deprecabile" furto (cfr. M. C. Di Natale, scheda II, 51, in Ori e argenti…, 1989, p. 224) erano custoditi nella Cappella Palatina. L’iscrizione posta sotto la base indica il committente dell’opera, il canonico La Rosa e Spatafora, protonotario apostolico; partendo da questo dato, si può quindi fissare un termine ante quem, che coincide chiaramente con la morte del suddetto prelato. Siamo agli inizi del XVII secolo, quando opera in Sicilia un abilissimo orefice, esperto nella tecnica dello smalto, Don Camillo Barbavara. Sarà lui l’autore nel 1627 del reliquiario per i capelli della Santa Vergine e nel 1632 della manta della Madonna del Vessillo del Duomo di Piazza Armerina. Proprio a lui la Di Natale attribuisce l’opera (cfr. M. C. Di Natale, scheda II, 68, in Splendori di Sicilia…, 2001, p. 403 ), accostandola alla Mitria cosiddetta del Carandolet, di proprietà invece dell’arcivescovo Giannettino Doria (1608-1642). Sono le fonti a testimoniare il legame che esisteva fra questo arcivescovo e l’orefice palermitano: "Don Camillo Barbavara era caro all’arcivescovo di Palermo Doria e lo si trova il 4 settembre 1650 a redigere l’inventario degli argenti proprio della Cattedrale di Palermo" (cfr. Biblioteca storica…, a cura di G. Di Marzo, 1869, vol II, p. 278, nota n. 1 che riporta A. Mongitore, ms. del XVIII secolo "Sulla Cattedrale di Palermo, segni QqE3, cap. XXXVIII, pag. 311"). Numerose sono le fonti, tutte riportate dalla Di Natale ( cfr. M. C. Di Natale, scheda II, 51, in Ori e argenti…, 1989, p. 224) , che citano e descrivono il calice in esame; l’opera è ricordata prima dal Manganante (cfr. O. Manganante, ms. del XVII secolo QqD17 della BCP, f. 418): "Un calice con la coppa tutta d’oro doppio, et il piede d’argento indorato con vari pietri preziosi e diamanti di bona somma fatto dal […] decano D. Giovanni Battista La Rosa per servitio quando canta il prelato". Sarà poi Antonino Mongitore (cfr. A. Mongitore, ms. del XVIII secolo QqE3 della BCP, f. 631) a scrivere : "Un calice d’oro con l’iscrizione di Gian Battista La Rosa e Spatafora, can. Utriusque, I.D. Proton. Apostolico, decano, ha varie pietre preziose". Non poteva mancare la testimonianza del De Ciocchis (1743) (cfr. De Ciocchis, Sacrae Regiae Visitationis…, 1743 ed. 1836, p. 69) che così lo descrive: "un calice d’oro con l’anima del piede, e sottorosa di argento dorato inastato detto piede, e sottorosa con inasto d’oro smaltati, e di molte sorta di pietre di berilli, granati, torchine, topazi, [sic] ed altre pietre, la coppa e patena di detto calice tutte d’oro, sotto la qual patena vi sono le armi della Maramma (…) in detto calice mancano due granatini, e cinque cocci di smalto torchino". La stessa descrizione è riportata per intero in un inedito inventario del 1801 (A.S.P. Conservatoria di registro, anno 1772-1801 vol. 1839, c. 9v. ,citato da M. C. Di Natale, scheda II,51, in Ori e argenti…, 1989, p. 224) e anche in un altro inventario del 1848, in forma più stringata (A.S.P. Miscellanea Archivistica I 443, Inventario della Magior [sic] Chiesa 1848, citato da M. C. Di Natale, scheda II,51, in Ori e argenti…, 1989, p. 224). Sotto la base si trova al centro un grande rosone inciso, quindi un ovale con il Cristo Crocifisso, lo stemma degli Spatafora, un ovale con l’Immacolata, lo stemma dei La Rosa, decorazioni inserite fra mascheroni. Su una serie di smalti a reticella che formano intrecci e volute, di colore bianco, bleu, rosso e verde, poggiano pietre o meglio gemme bianche, rosse ,gialle, azzurre e piccoli turchesi.
Bibliografia: O. Manganante, ms. del XVII secolo; A. Mongitore, ms. del XVIII secolo; De Ciocchis, 1836; S. Di Bartolo, 1903; M. C. Di Natale, 1989; M. C. Di Natale, 1996; M. C. Di Natale, 2000; M. C. Di Natale, 2001a; M. C. Di Natale, 2001 b
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